Ha vinto quattro mondiali, ma nessuno sembra aver cercato Sebastian Vettel né prima, né dopo l’annuncio del suo addio alla Ferrari.
Quello di Seb resterà un caso degno di studio quando si analizzerà in futuro la storia della F1. E’ difficile farsi venire in mente un altro pilota capace di collezionare 53 successi e 120 podi e di rimanere così poco nel cuore dei tifosi e nella mente dei team principal come lui.
Altrettanto complicato è capire il perché anche in questa occasione, per certi versi succulenta, sia stato ampiamente snobbato da tutti. Intanto è bene chiarire. Lo scorso autunno, sarebbe stato lui, il tedesco, a bussare alla porta di Toto Wolff ricevendo un due di picche edulcorato dalla parola attesa, mentre addirittura non sarebbe stato neppure preso in considerazione dalla McLaren che con la cessione di Sainz alla Rossa avrebbe potuto dare vita ad uno scambio nudo e crudo e che ha invece preferito puntare su Ricciardo, altro personaggio dal cachet pesante e neppure molto più giovane, parliamo infatti di 30 anni contro 32.
E che dire della sua ex casa, la Red Bull che tramite il talent scout Helmut Marko ha chiuso immediatamente la questione spaventato da richieste economiche incompatibili con l’esigenza di investire risorse ed energia solamente su Verstappen? Alla luce del calibro del driver di cui si parla l’unico altro approdo degno di considerazione sarebbe la Renault, ma pure lì si sta tirando la cinghia e di certo Vettel non può rientrare nei loro piani.
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La sensazione dunque è che alla fine del 2020 il #5 si congederà dalla F1 nell’anonimato più totale, peggio ancora di un Massa o di un Irvine qualsiasi e con ogni probabilità neppure rimpianto.
Ragazzo d’altri tempi nel suo approccio alla vita e al paddock Sebastian ha una grande “colpa” per cui sta pagando. L’essersi trovato ancora imberbe su un missile progettato da Adrian Newey, in grado di regalargli ben quattro sigilli senza troppo sudore. Questo lo ha reso antipatico al pubblico e poco valutato da colleghi e dirigenti, consapevoli della superiorità del mezzo che aveva a disposizione. A ciò vanno sommate le liti e i momenti di tensione con il vicino di box Mark Webber, da lui sempre e comunque obbligato a fare il secondo. In soldoni, l’aver ottenuto tutto e subito e l’aver adottato a tratti un atteggiamento da despota, potrebbero aver scatenato l’effetto karma rendendo la sua permanenza a Maranello un semi fallimento e il suo nome soltanto uno dei tanti.
Chiara Rainis
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