Giacomo Agostini e Lucio Cecchinello sono due dei grandi italiani del motociclismo che ricordano con affetto il campione scomparso Carlo Ubbiali
“Io da bambino sognavo di diventare Carlo Ubbiali”. E se a dirlo è un quindici volte campione del mondo come Giacomo Agostini, leggenda del motociclismo più di ogni altra, bastano queste parole a definire la grandezza del fuoriclasse scomparso ieri all’età di novant’anni.
Ubbiali, nove volte iridato, primo grande dominatore delle cilindrate inferiori negli anni pionieristici del Motomondiale, fu infatti un mito e punto di riferimento del grande Mino. “Lui bergamasco, io di Lovere, pazzo come ero per le moto seguivo le sue imprese sui giornali e sognavo a occhi aperti di seguire la sua strada”, è il ricordo di Agostini oggi alla Gazzetta dello Sport. “Avevo 10-11 anni, lui poco più di venti, a leggere delle sue imprese lo pensavo un Dio. Un bergamasco, poi, che vinceva con la Mv Agusta… Ha significato tanto per me. E di sicuro mi ha insegnato molte cose. Era un pilota che correva con furbizia e intelligenza, ha vinto tante gare in volata proprio perché era molto meticoloso, attento ai dettagli”.
Pensare che forse, senza l’intervento decisivo di Ubbiali, non si sarebbe neppure mai creato quel sodalizio irripetibile che portò Agostini sul tetto del mondo con la Mv Agusta: “È stato un grande e una gran brava persona e fu lui a parlare di me al Conte Agusta e poi con Arturo Magni, il direttore sportivo che lo aveva chiamato per chiedergli informazioni dopo che avevo vinto a Varese il titolo italiano con la Morini 250: eravamo nel settembre 1964 e ricordo che a ricevere la telefonata di Magni fu mio papà, perché io stavo dormendo”, conclude Ago.
Ma Ubbiali non abbandonò mai il suo primo amore, le moto, nemmeno negli anni può recenti: alla fine degli anni ’80 lavorò infatti con Lucio Cecchinello, allora pilota di classe 125. “Fu il consulente sportivo mio e di Ueda dal 1998 al 2000, veniva alle gare, ci faceva da coach”, racconta l’italiano ancora alla Gazzetta. “Era un uomo di vecchio stampo, molto discreto, poca esuberanza ma molta sostanza, estremamente onesto, chiaro, schietto, senza peli sulla lingua: se non gli stavi simpatico non te le mandava a dire. E poi era un signor intenditore, capiva perfettamente le dinamiche di una gara e anche se veniva da un’altra epoca in cui correvano con moto molto diverse, sapeva esattamente cosa diceva. Mi ha insegnato l’importanza della psicologia, l’attitudine da avere nei confronti dei tuoi avversari in pista e fuori, il farsi rispettare sempre. Fu un riferimento importantissimo in quella fase della mia carriera”.
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