Nel 2001 ci lasciava Alboreto, uno dei più grandi talenti italiani. Dall’esordio in Tyrrell al Mondiale sfiorato con la Ferrari. Una storia che meritava ben altro finale
Un gentiluomo, in pista e fuori. Il volto diceva tutto di lui, uno dei talenti italiani più grandi di tutti i tempi in F1. Sono già passati 20 anni da quel 25 aprile 2001, quando ci lasciava Michele Alboreto, ricoverato in un ospedale di Dresda dopo un terribile incidente avvenuto sul circuito di Lausitzring, mentre stava eseguendo dei test su una Audi R8, una vettura per le American-Le Mans series e per la corsa di Le Mans.
Da sempre appassionato di auto, si buttò subito nell’avventura delle corse, con vetture a ruote scoperte e non. A volte con macchine scadenti, con team con budget ridottissimi ma con tanta voglia di arrivare. Come quella di Alboreto, che con tenacia, passo dopo passo, si conquistò la ribalta.
Grazie ai buoni risultati ottenuti nelle formule minori e all’intercessione del conte Zanon, amico di Ken Tyrrell, debuttò in Formula 1 nel 1981. Dopo una prima stagione senza aver conquistato punti, arrivò il suo momento di gloria. A Las Vegas il primo successo, bissato l’anno successivo a Detroit, quasi gli Usa gli portassero fortuna. Un talento vero, una guida pulita quanto redditizia. Qualità che impressionarono anche il duro Enzo Ferrari, che per lui spese parole di elogio e che, sempre per lui, ruppe quello che era un tabù che durava da tanto, troppo tempo, quello di un italiano sulla Rossa di Maranello.
Cinque stagioni con la Ferrari per Alboreto, che raccolse appena tre vittorie, poche per le grandi prestazioni che comunque mostrò. Il 1985 fu la sua annata migliore. Era in lotta per il Mondiale con Alain Prost, fino al GP d’Olanda. Un testa a testa entusiasmante, poi un brusco calo di affidabilità, dovuto all’introduzione di un nuovo motore e il titolo che andò al francese.
Fu la sua grande occasione, l’unica in rosso. Ma che emozione regalò ai tifosi. Così come l’11 settembre 1988, a poco meno di un mese dalla morte del Drake, quando a Monza arrivò alle spalle di Gerhard Berger per una doppietta Ferrari, quasi ad omaggiare il suo grande vecchio.
Dopo la parentesi ferrarista, Alboreto gareggiò ancora con la Tyrrell, poi con la Lola, con la Footwork e la Minardi, senza però ottenere grandi risultati. Chiuse la sua avventura in F1 con 194 gran premi disputati e un totale di cinque vittorie, due pole position, nove secondi posti e nove terzi posti. Forse troppo pochi per un guerriero come lui.
Ma quella passione per le auto non si esaurì mai. Il richiamo dei motori non si spegne come un interruttore. E allora eccolo in pista, a trionfare anche con le ruote coperte. Nel 1997 il trionfo nella 24 Ore di Le Mans, nel 2001 anche la 12 Ore di Sebring, poco prima di quel tragico pomeriggio vicino Dresda. Un incidente che spazzò via anche il suo altro sogno, quello di creare una categoria promozionale per permettere ai giovani piloti italiani di emergere a livello internazionale. Un progetto che, però, dopo la sua morte non venne attuato. Di lui rimarrà quell’immagine simpatica, da bravo ragazzo, così dolce ma così grintoso in pista. Un pilota di cui era impossibile non innamorarsi, che sciolse perfino il cuore del Drake. Il campione italiano, il campione di tutti.
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