La tragedia di Jason Dupasquier al Mugello ha fatto rivivere a Paolo Simoncelli il dramma di suo figlio, l’indimenticato Marco Simoncelli
La tragedia di Jason Dupasquier, il 19enne pilota svizzero rimasto ucciso in un terribile incidente durante le qualifiche di Moto3 di sabato scorso al Mugello, ha rappresentato un trauma per tutto il paddock del Motomondiale.
A maggior ragione per chi un lutto di questa portata lo ha già vissuto sulla sua pelle, come Paolo Simoncelli, oggi team principal della Sic58 Squadra Corse, che ha perso esattamente dieci anni fa suo figlio Marco Simoncelli durante il Gran Premio della Malesia di MotoGP.
L’impatto emotivo per lui è stato devastante, come racconta ai microfoni de La Repubblica: “La notte tra sabato e domenica sono stato male. Ci ho pensato fino all’alba. Avevo letto del trauma cerebrale di Jason, qualcuno sosteneva che, se fosse sopravvissuto, nella migliore delle ipotesi poteva restare attaccato a una macchina”.
Quelle ore di angoscia hanno risvegliato in Simoncelli il dramma che purtroppo è davvero impossibile dimenticare. “Fino a ieri credevo di essere stato fortunato, perché il mio Marco era morto subito: cioè, non era rimasto disabile”, ha proseguito. “Ma poi ho visto un caro amico accarezzare la testa al figlio costretto su una sedia a rotelle dopo un incidente di motocross: forse era meglio se anche Marco finiva così”.
Alla mattina di domenica è arrivata la notizia che nessuno avrebbe mai voluto ricevere: Jason Dupasquier non ce l’ha fatta. Ma Simoncelli non ha gradito la decisione dell’organizzazione del campionato, la Dorna, di tributare allo sfortunato giovane un minuto di raccoglimento sulla griglia di partenza.
“Il minuto di silenzio non mi è piaciuto”, prosegue. “Andava evitato. Qualcuno lo avrà considerato un omaggio, una maniera per esternare rispetto nei confronti di familiari e amici della vittima. Grazie, ma credetemi: i minuti di silenzio sono una cosa veramente angosciosa. Non si possono sopportare. Io li eliminerei. A maggior ragione, poco prima di accendere i motori”.
Si tratta di dolori privati, che nessuno che non li abbia vissuti può davvero comprendere: “Quando perdi un figlio in pista quei luoghi, dove magari hai trascorso tutta la tua vita, di colpo cessano di esistere. Ti trovi in un altro mondo. Non capisci nemmeno dove: però è lontano. Irraggiungibile per gli altri. E stai sicuro: non ti importa nulla, di tutto il resto”.
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