Un bel ritorno, anche se per un solo GP, quello di Pedrosa. Un campione che però nella classe regina ha sempre raccolto meno del suo reale valore
Un ritorno che ci si aspettava da tempo, anche se solo per un solo GP. Rivedere Dani Pedrosa in mezzo al gruppo in Austria sarà come un tuffo nel passato, un modo per celebrare (se ce ne fosse ancora bisogno) un campione che in MotoGP ha ottenuto meno di quanto invece avrebbe potuto avere.
A parlare per lo spagnolo sono i numeri che ha fatto segnare. Ha ottenuto 54 vittorie nel Motomondiale (in tutte le classi) alla pari con Mick Doohan al settimo posto di tutti i tempi, ha vinto 31 volte in MotoGP, come Lawson, all’ottavo posto all time, ha fatto segnare 31 pole in top class e 112 podi.
Pedrosa poi ha vinto in 16 piste diverse in MotoGP ed ha conquistato la pole in 14, altro record. Soprattutto ha vinto almeno una gara in ciascuna delle sue prime 12 stagioni nella top-class (2006-2017), lo stesso record di Giacomo Agostini.
Ma c’è anche un altro dato: Pedrosa è stato tre volte secondo e tre volte terzo nel Mondiale MotoGP. Nella sua carriera nella classe regina, tre dei suoi compagni di squadra (Hayden, Stoner, Marquez) hanno vinto un totale di sette titoli con lui come compagno di squadra. Lui invece è rimasto a bocca asciutta.
E dire che di talento ne ha sempre avuto, sopra la media. Ma a volte ci si è messa di mezzo anche la sfortuna. Come nel 2008, quando al Sachsenring, sotto l’acqua, conduce la gara ma scivola alla staccata di curva 1, finendo contro le barriere e rompendosi una mano. Tutto questo a causa di una strategia discutibile di Alberto Puig, che dal muretto box gli segnalava un distacco inferiore a quello reale e quindi lo costringeva a spingere sempre di più. Un ko quello che risultò fatale per quella stagione, chiusa poi al terzo posto. Prima di quell’infortunio infatti era sempre arrivato tra i primi 4 e lottava seriamente per il titolo.
Anche nel 2010 Pedrosa avrebbe potuto vincere il Mondiale, ma una frattura alla clavicola lo tenne fuori dai GP in Giappone, Malesia e Australia proprio in piena lotta con Jorge Lorenzo. Stesso discorso nel 2011 quando si ruppe la clavicola destra a Le Mans dopo un contatto con Marco Simoncelli. E anche quella volta saltò tre gare, dicendo addio anticipatamente al titolo.
Se pensiamo a un altro Mondiale buttato al vento c’è quello del 2013, che Pedrosa avrebbe potuto conquistare se non fosse caduto in Germania e ad Aragon, proprio quando stava contendendo lo scettro a Marc Marquez. Un campione sempre alle prese con problemi fisici, come nel 2015, quando la sindrome compartimentale lo condizionò praticamente per mezzo Mondiale, chiuso poi con soli sei podi. Per non parlare del 2016, quando a Motegi si ruppe la clavicola destra e dovette operarsi.
Chissà come sarebbe andata con un po’ di fortuna in più. Anche se Pedrosa l’ha sempre presa con filosofia. L’amarezza forse è stata solo quella di non aver provato nessun’altra moto al di fuori della Honda. Con Yamaha, ha ammesso lui stesso, forse sarebbe andata diversamente. Intanto con la KTM, seppur da collaudatore, ha fatto miracoli. E chissà che in Austria non sia solo una comparsa…
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