Dal trionfo all’addio alla MotoGP: ascesa e caduta della Suzuki

La parabola della Suzuki e il ritratto di un marchio storico che si è sempre messo in competizione con Yamaha e Honda, senza mai sfondare realmente.

Doveva essere la moto che metteva in discussione il duopolio Yamaha-Honda, invece la Suzuki ha vissuto una parabola troppo spesso già vista, quella del terzo incomodo, solo ogni tanto capace di riuscire nell’exploit che fa emozionare e niente di più. E forse per questo, dopo 8 stagioni di fila in MotoGP, ha deciso nuovamente di dire basta con la classe regina e il mondo del Motomondiale. Una decisione che ha sconvolto il paddock, che non si aspettava minimamente che si arrivasse a questo punto.

Suzuki, Joan Mir (ANSA)
Joan Mir (ANSA)

Anzi. In queste settimane il dibattito era sorto sul fatto che la Suzuki aprisse definitivamente le porte a un team satellite, visto che in ballo ci sono alcuni contratti con team importanti che potrebbero permettere alla casa giapponese di avere quattro moto nel Mondiale. Invece a sorpresa la decisione non di raddoppiare ma di dire basta.

Suzuki, un amore mai realmente nato con la MotoGP

La casa giapponese è sempre stata vista come il terzo incomodo nella classe regina, quella che poteva sparigliare di tanto in tanto le carte in tavola e rompere le uova nel paniere a Honda e Yamaha. In principio fu Barry Sheene, che nelle stagioni ’76 e ’77 portò a casa i primi titoli per il team, poi toccò al duo italiano Lucchinelli-Uncini qualche anno dopo riportare sulla cresta dell’onda la Suzuki, che ha dovuto poi aspettare fino al 1993 (con Kevin Schwantz) per rivedere tutti dall’alto in basso, mentre nel 2000 a sorpresa fu Kenny Roberts Jr a centrare l’iride.

Soprattutto quest’ultimo successo fu preso da molti come un semplice caso e non un punto di partenza per la casa giapponese, che tra alti e bassi, tra addii e ritorni, ha vissuto una storia travagliata in MotoGP. Nei primi anni Duemila ci riprovò affidandosi senza troppo successo a Loris Capirossi, poi nel 2011 il primo stop e il rientro nel 2015, che portò dopo un anno al primo successo con Maverick Vinales. Sembrava il primo step per una crescita finalmente a livello dei grandi, ma i piccoli passi della Suzuki in realtà non hanno mai portato realmente a un’entrata nell’élite del Mondiale.

Solo nel 2019, con Alex Rins e a tre anni di distanza dall’ultimo trionfò, qualcosa sembrò cambiare di nuovo. E nel 2020, a sorpresa, arrivò addirittura il titolo Mondiale con Joan Mir e quello a squadre (ma non costruttori), frutto di un’annata sì particolare per i pochi appuntamenti (a causa del Covid) ma fu il coronamento di un lavoro importante coordinato da Davide Brivio e che sembrava poter portare a una riconferma. Invece l’addio del punto di riferimento (andato in F1) ha di nuovo rimesso tutto in discussione e i risultati si sono visti: un 2021 non all’altezza e le voci di una Suzuki fuoco di paglia che hanno tentato di sminuire quanto fatto nel 2020. E forse proprio questo, oltre ai crescenti costi per rimanere in MotoGP, hanno portato i vertici giapponesi a dire di nuovo addio.

Resta l’amaro in bocca per quello che poteva essere e non è stato. La Suzuki poteva starci tranquillamente in un Mondiale MotoGP così competitivo. E invece, ancora una volta, si è deciso di dire basta. E chissà però se si riaprirà tra qualche anno il discorso, stavolta però in maniera più convincente.

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