La decisione dell’UE di vietare dal 2035 l’utilizzo di auto a benzina e diesel porta con sé tanti interrogativi. Ad esempio le batterie.
L’addio imposto dal Parlamento Europeo alle macchine alimentate a carburante tradizionale a partire dal 2035, sta preoccupando molti. Il passo è stato fatto per arginare quanto possibile l’inquinamento e il cambiamento climatico, ma tutt’ora qualcosa non convince. Specialmente sotto il profilo economico e strategico. La produzione delle batterie per i veicoli elettrici avviene infatti perlopiù in Cina. Ciò significa che d’ora in poi faremo grossi regali al mercato asiatico.
Proprio sul punto si è espresso il direttore della rivista specializzata “Al Volante” Guido Costantini, mostrando perplessità sia per quanto concerne il futuro del comparto, sia per quello degli utenti che vorranno investire su un’autovettura.
“Le posizioni più caute sul passaggio alla tecnologia verde del ministro Giorgetti erano condivisibili. Allo stesso modo pure il ministro Cingolani ha avvisato che con questa scelta vengono messi in discussione 300mila posti di lavoro. Di conseguenza ora bisognerà tutelare gli interessi dell’industria e dell’economia nazionale dell’automotive“, ha affermato il giornalista.
Il progresso non va dimenticato, ma neppure va disatteso il principio di neutralità.
“Se si punta solo sulle vetture elettriche, vengono tagliate fuori soluzioni alternative e percorribili come i carburanti sintetici“, ha denunciato. “Si tratta sempre di combustibile che brucia, ma i livelli di inquinamento sono molto più bassi dei tradizionali“.
Il rischio è dunque quello di concentrarsi soltanto su una strada, ignorando le altre vie, che pur presenti forse non fanno il gioco di certe industrie.
No ad auto diesel e benzina: perché è sbagliato
Come sta avvenendo in F1, apice della competizione motoristica e da sempre laboratorio delle innovazioni da applicare secondariamente al prodotto, i bio-fuel potrebbero rappresentare una valida alternativa alla conversione assoluta al full electric.
“Esattamente”, ha proseguito il responsabile del maganine. “Invece l’Unione Europea ha optato per buttare via i miglioramenti fatti dai nostri propulsori classici in termini di emissioni. L’Euro6d Temp ha raggiunto alti livelli di standard. E già si parlava di certificazione Euro7. Impedirne la vendita è come minimo affrettato. Qui si parla di emissioni di Co2 prese in considerazione nell’utilizzo delle macchine. Non dell’inquinamento di un veicolo nel suo ciclo di vita a partire dalla produzione”.
Un po’ come la contraddizione della Formula E che vanta di portare in gara monoposto elettriche. Poi però i generatori utilizzati per le ricariche vanno a diesel. Così si fa finta di non vedere o considerare l’anidride carbonica emessa in fase di creazione di un mezzo di trasporto.
“Per produrre un’auto, dalla scocca, alla piattaforma, agli interni fino alla batteria vengono attivati processi complessi che emettono CO2 ed altre sostanze inquinanti“, ha proseguito nella sua esposizione dei dubbi. “Alcuni studi dimostrano che produrre un’elettrica sia meno inquinate. Ma la verità è che l’auto pulita non esiste“.
E qui si apre un’altra questione. Da dove arriverà l’energia per ricaricare le batterie e consentirle di compiere viaggi?
“Se sarà prodotta da centrali a carbone, per quanto all’avanguardia, o non da fonti rinnovabili, si torna punto e a capo. La produzione più pulita sarebbe quella del nucleare. Tuttavia qui si spalanca un ulteriore scenario controverso. E riguarda lo smaltimento delle scorie. Ovvero costi ambientali“, ha argomentato.
Un’altra problematica che si incontrerà, a suo avviso, è l’impennata dei prezzi. Chi vorrà rinnovare la propria macchina dovrà spendere molto di più. Qualunque sarà la tipologia scelta.
Cosa si rischia con la conversione
Luca De Meo, presidente della Renault, nel corso di un incontro con l’ANFIA, l’associazione della componentistica, ha a questo proposito anticipato: “Scordatevi che a breve una macchina possa costare meno di 20mila euro. Elettrica o no. Il rispetto di standard sempre più severi per restare dentro le norme anti-inquinamento comporta costi di sviluppo e produzione sempre più alti. E tutto questo si rifletterà sul prezzo finale per il consumatore“.
Tornando alla ricarica delle batterie. Qui si va sulle dolenti note. L’Acea, ossia l’Associazione dei Costruttori di Auto Europea, sostiene che, stando ad uno studio della McKinsey, per centrare gli obiettivi posti dal piano “Fit for 55” servirebbe una rete composta da 6,8 milioni di punti di ricarica pubblici in Europa. Numeri piuttosto lontani dalla realtà odierna, visto che sulle strade del Vecchio Continente ve ne sono appena 300.000.
“A fronte di ciò il pericolo è non solo alimentare i veicoli con energia non del tutto pulita, ma altresì non disporre di una rete adeguata di stazioni di ricarica pubblica. Senza contare quello che dovranno fare i privati nelle loro abitazioni. Inoltre saremo legati mani e piedi ai cinesi“, ha snocciolato le criticità.
Per far meglio comprendere quest’ultima annotazione, Costantini ha spiegato: “Sono gli asiatici a dominare il settore. Non solo per quanto concerne l’estrazione dei metalli rari e delle materie prime che servono a realizzare le batterie. Bensì sono anche i leader della prima lavorazione. Quando si parla di gigafactory, alla fine parliamo di assemblaggi. Tuttavia il grosso viene fatto a monte. Cioè a Pechino e dintorni“, ha inquadrato l’elemento debole della questione ambientale.
Il tema dell’elettrico è senz’altro caldo. E sono in molti a non aver incassato bene il provvedimento della UE. Spesso si prendono ad esempio i Paesi del Nord Europa. Specie la Norvegia. Lì le vetture “verdi” sono la normalità da diverso tempo. E lo stesso governo tempo fa volle dare degli incentivi per agevolare l’acquisto di quella tipologia di mezzi. Oggi però un simile discorso non regge più. Più o meno tutti si sono adeguati e il bonus ha perso la ragion d’essere.
All’avanguardia pure il sistema di ricarica. Presente in maniera capillare sull’intero territorio abitato. Tutto bello. Non fosse che la popolazione norvegese consta di poco più di 5 milioni di abitanti. Un nulla rispetto ai nostri 60 milioni. Senza contare le cifre ancora più alte di Germania, Inghilterra o Francia.
La sensazione è che i propositi siano nobili e condivisibili. Ma che nella realtà dei fatti si sia ancora molto indietro per poterli concretizzare su larga scala. La scadenza del 2035 incombe e per ora tutto sembra congelato. A partire dalle colonnine, ancora troppo poco presenti.